Inchieste

La tagliola della burocrazia: per le imprese un conto da 57 miliardi

Scritto il

di Laura Siviero

Né la crisi pandemica, né la guerra, né il caro energia hanno preoccupato e continuano ad allarmare gli imprenditori quanto la morsa della burocrazia, male endemico italiano che stritola le aziende tanto da farle fuggire all’estero o da non riuscire ad attrarne di nuove, o semplicemente da deprimerle.

Dalle grandi alle piccole, dall’edilizia all’energia, dal food ai farmaci, senza distinzioni, tutti ne lamentano il peso.

Adempimenti eccessivi, permessi, pratiche, autorizzazioni, inutili timbri, attese eterne per gli allacciamenti o anche solo per partire, per aprire una società, un costo annuo in capo alle imprese che, secondo il rapporto della Cgia, l’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, e le analisi dell’Istituto Ambrosetti e Deloitte, ammonta a 57 miliardi di euro.

Se a questa somma aggiungiamo – commenta Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi della Cgia – anche i mancati pagamenti da parte dello Stato centrale e delle autonomie locali nei confronti dei propri fornitori, «il cattivo funzionamento del nostro settore pubblico grava sul sistema produttivo italiano per quasi 100 miliardi l’anno».

Il risultato che emerge dal confronto con gli altri Paesi europei è impietoso. Nel decennio 2008-2018, gli ultimi dati disponibili del World Economic Forum mostrano che il grado di complessità amministrativa che grava sulle imprese è nettamente superiore da noi rispetto agli altri principali Paesi competitor. L’Italia si posiziona al 136° posto, perdendo sei posizioni negli ultimi 10 anni.

Il miglioramento dell’efficienza della macchina pubblica – è la proposta della Cgia – deve svilupparsi secondo tre direttrici: una digitalizzazione massiva del rapporto tra imprese e pubblica amministrazione, il dialogo tra le banche dati pubbliche, con la standardizzazione dei procedimenti e della modulistica e la riorganizzazione delle competenze e del numero di enti coinvolti nel medesimo procedimento. Con l’obiettivo di raggiungere l’auspicato principio del «once only», in base al quale le pubbliche amministrazioni non possono chiedere all’impresa due volte i  dati già in loro possesso.

Le aziende vogliono poter contare su norme chiare, senza doversi assumere la responsabilità di interpretazioni, con il rischio di incorrere poi in sanzioni a seguito di controlli da parte di enti diversi, che interpretano in modo soggettivo la stessa norma. In sintesi, chiedono che il rapporto con la PA si semplifichi con una sola istanza, una sola piattaforma informatica, una sola risposta e un solo controllo.

«La burocrazia è anche necessaria – dichiara Giovanni Baroni, vicepresidente Confindustria e presidente della Piccola Industria – ma, quando va oltre, è una prigione per le aziende, limita la libertà di fare impresa.

Oggi uno dei temi principali è il fotovoltaico: le domande di allacciamento non trovano risposte e si finirà per poter utilizzare gli impianti già pronti solo dopo l’inverno, con un danno per l’impresa e per il Paese. Molti si stanno ingegnando a sganciarsi dal gas naturale, alcuni imprenditori che hanno gruppi elettrogeni che possono mettere in funzione hanno chiesto di poterli accendere e alleviare il consumo di gas, ma non ricevono risposta. I sopralluoghi dei vigili del fuoco – continua Baroni – che vengono a effettuare i controlli solo quando tutto è assolutamente perfetto e hanno quaranta giorni di tempo per presentarsi, rallentano le aziende che per due mesi non possono partire». Sui ritardi negli allacciamenti gli episodi non si contano: dal Nord al Sud Italia le aziende hanno pronti gli impianti fotovoltaici ma le autorizzazioni non arrivano, le bollette si gonfiano, ogni giorno sprecato mette a rischio le aziende nonostante gli investimenti fatti.

Ma c’è chi si stanca di aspettare, come dimostra il caso eclatante di Catalent, la multinazionale farmaceutica americana che aveva promesso un investimento di 100 milioni di dollari nel suo stabilimento produttivo di Anagni, per creare un centro di sviluppo sulla produzione innovativa di materie prime biologiche, ma la scorsa primavera l’ha ritirato a causa delle lungaggini burocratiche che hanno impedito di entrare in possesso delle autorizzazioni ambientali. E ha spostato fondi e produzione in una struttura nei pressi di Oxford. Mandando così in fumo il contratto di 100 ricercatori. Già, perché anche i grandi si scontrano con il muro di gomma della burocrazia. Esselunga, colosso distributivo del food, ad esempio ha impiegato 16 anni per aprire un superstore in un paese della provincia di Cuneo e ben 36 anni per sbarcare a Genova.

Episodi tutt’altro che sporadici, che danno ragione all’ultima edizione di Doing Business, il rapporto di Banca Mondiale che analizza la facilità di fare impresa, attraverso l’effetto di regolamentazioni e prassi diverse sulle piccole e medie imprese, posizionando l’Italia al 58° posto su 190 Paesi presi in esame, dopo aver perso 19 posizioni in due anni. Da notare che il 58° posto è la media di una decina di voci: se l’Italia è prima al mondo per capacità di internazionalizzazione delle imprese, figura al 128° posto per l’applicazione dei contratti, al 98° per l’avviamento di un’attività o al 119° per la capacità di ottenere credito.

E mentre le grandi aziende o le multinazionali che vengono a investire in Italia hanno comunque un piano B, se non riescono a impiantare la sede nel nostro Paese la spostano in un altro, le medie o, peggio ancora, le piccole imprese non hanno alternativa: o investono sul territorio o non investono. Basti pensare che per aprire un salone di acconciature, dimostra uno studio della Cna sull’avvio delle attività imprenditoriali, si va da un minimo di 65 adempimenti ad un massimo di 86 e una spesa anche di 20mila euro.

Ventisei gli enti coinvolti. Poi la presentazione della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), il superamento di un esame teorico-pratico a compimento di un corso triennale e di uno stage dalla durata variabile tra le 500 e le 1.200 ore a seconda della regione. Oltre alla documentazione obbligatoria per legge, da presentare al Suap (Sportello unico attività produttive). Alcuni Comuni richiedono poi attestazioni facoltative: Catania e Ragusa pretendono il certificato di agibilità dei locali, che si ottiene in 60 giorni e costa 1.500 euro.

Alle scartoffie si aggiunge il problema delle connessioni, della fibra ottica che stenta a partire e coprire i territori. «Tra le province di Novara e Vercelli – spiega Amleto Impaloni, segretario Confartigianato del Piemonte Orientale – l’allocazione errata delle risorse e la burocrazia non consentono di avere una fibra veloce. Così distretti come quello della rubinetteria della Val d’Orta soffrono ancora il deficit delle infrastrutture legate alle telecomunicazioni. E poi la digitalizzazione: sono pochi gli uffici della pubblica amministrazione che usano lo Spid o la Carta Nazionale dei Servizi, per accettare procedure formali. Poche che consentono istruttorie online con firma digitale. Cavilli e sportelli che rubano circa 238 ore all’anno alle aziende vuole dire sottrarre un decimo del tempo all’impresa».

La banda ultralarga in Italia procede a passo di lumaca. Mediamente occorre una autorizzazione ogni circa 400 metri di cavo (nei casi peggiori). I finanziamenti dello Stato oggi ci sono, oltre a quelli delle società private, ma la burocrazia mette continuamente i bastoni fra le ruote impedendo che l’Italia scali la classifica tecnologica europea: siamo al 25° posto, avanti solo a Bulgaria, Romania e Grecia.

La richiesta del mondo produttivo è che la burocrazia, male necessario, sia al servizio del cittadino, dell’impresa, non il contrario. La marea di regole e protocolli quotidiani – si stima che l’Italia sia tra i primatisti mondiali con 160mila norme, di cui 71mila a livello centrale e il resto a livello locale, e quindi spesso concorrenti – evidenzia come l’Italia sia un Paese affetto da iper-legiferazione e iper-burocratizzato, concentrato più sulle procedure da seguire che sulla loro attuazione. Con una Pubblica amministrazione troppo frammentata (10.500 istituzioni, di cui solo l’1,7% centralizzato, il restante 98% disseminato in organi locali) e un dedalo di norme che costringe le imprese a dedicare circa 12mila ore all’adempimento degli oneri amministrativi.

La semplificazione occupa sempre un posto di rilievo nell’agenda politica, eppure dal 1990 si sono succeduti 19 governi e 8 legislature con oltre 16 riforme della pubblica amministrazione, e il peso della burocrazia è ancora tutto lì.

Tra i tentativi per affrontare il problema spicca quello del Think Tank Nord Est e dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani-Università Cattolica, coordinato da Carlo Cottarelli nel 2020, che ha presentato 20 proposte generali e 91 specifiche di semplificazione burocratica «partendo – spiega il neosenatore – dai suggerimenti delle imprese che lottano ogni giorno con la complessità della normativa italiana». L’accento dello studio è sulla eliminazione di regole inutili, moduli ridondanti, procedure complesse che minano la produttività e la competitività delle nostre imprese.

Indicazioni che trovano riscontro nel PNRR che assegna al Dipartimento della Funzione pubblica il compito di reingegnerizzare e digitalizzare, ove possibile, 600 procedure entro il 2026, di cui 200 entro il 2024, per arrivare a creare un archivio unico, giuridicamente valido su tutto il territorio nazionale. In ogni settore. Ambiente, edilizia, energia, lavoro, fisco.