Inchieste

Tra moda e digitale alleanza obbligata

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di Antonio Dini

La moda è sempre più tech. Filiera digitale, stampanti 3D, tagli laser sono sempre più usate per progettare e realizzare i vestiti, anche quelli di alta moda, e poi distribuirli.

Il settore continua a crescere grazie alla spinta tecnologica: secondo McKinsey il settore del lusso crescerà tra il 5 e il 10% nel 2023, trainato dalla Cina (tra il 9 e il 14%) e gli Usa (tra il 5 e il 14%). L’Europa, invece, crescerà meno: tra il 3 e l’8%. A sostenere la trasformazione ci sono alcune tendenze sia sul versante della produzione che del consumo: la tecnologia per navigare l’incertezza delle catene di approvvigionamento e distribuzione, quelle per rendere le produzioni sempre più green, i nuovi processi produttivi, la riorganizzazione interna dell’azienda con la trasformazione digitale e le nuove strategie di marketing omnicanale che adesso, con il digitale, devono anche affrontare un periodo di costi crescenti.

Intanto, lo shopping online, che è entrato nelle abitudini di tutti, anche se dopo la pandemia è tornata la voglia di fare acquisti dal vivo. Il cambiamento più grande però è avvenuto tra le aziende, che adesso si stanno riorganizzato per mettere il cliente al centro dei processi e riportano le produzioni in patria. Dopo la pandemia, con il collasso delle reti di contatto e dei trasporti, le interruzioni delle catene produttive e di rifornimento hanno riconfigurato la produzione globale. Questo trasforma la delocalizzazione produttiva in nuovi modelli di catena di fornitura basati su un’integrazione verticale o “nearshoring”: ora gli stabilimenti e fonti sono nel Paese d’origine o il più vicino possibile (magari con un sistema legale amico: “friendshoring”), grazie al tech che fa da colla per tenere tutto assieme.

Ma non è l’unica sfida digitale da affrontare: come spiegano gli analisti di McKinsey che hanno realizzato il report The State of Fashion 2023, la moda gender-fluid rivoluziona l’atteggiamento dei consumatori nei confronti dell’identità e dell’espressione di genere. Questo si traduce nell’offuscamento dei confini tra abbigliamento da uomo e da donna, che per molti marchi vuol dire ripensare il design del prodotto, la sua realizzazione, il marketing e le esperienze di acquisto in negozio e digitali. Serve una velocità che solo progettazione, produzione, marketing e distribuzione digitali possono dare.

I problemi non sono solo questi: c’è il nodo della sostenibilità. Come ha dichiarato Silvia Andreani, client officer luxury fashion and beauty di Ipsos, molti consumatori non si fidano più delle dichiarazioni dei marchi, ritenendoli spesso un “greenwashing”. La trasformazione digitale e la comunicazione sui social sono le strade per tamponare questo problema che mette accanto a prezzo, qualità e fitting anche valori etici. E l’economia circolare, sulla base del Green Deal europeo: «Oggi – ha detto Francesca Romana Rinaldi, direttrice del Monitor for circular fashion della Bocconi – non basta più usare materiali circolari. I principi di ecodesign, come la durabilità, la riparabilità, devono essere applicati a tutta la catena di produzione». La chiave è la tecnologia.

Infatti, la tecnologia serve per i prodotti. Lo ha detto in un convegno Giusy Giannone, Ad di Fashion Technology Accelerator, l’hub internazionale di Milano con circa 40 startup innovative del settore moda: «Servono delle innovazioni di vera tecnologia, che riguardino i tessuti e una manifattura più automatizzata. Dobbiamo puntare sull’innovazione del mondo dei tessuti, non solo nel mondo digitale ma tessile, del riciclo e dello smaltimento del capo».

L’alleanza tra moda e tecnologia può sembrare strana: di solito l’una tende a non amare l’altra. In realtà stanno convergendo su molti fronti. A spingere le realtà dell’abbigliamento verso soluzioni ad esempio di reshoring non è tanto un problema di costi, quanto un’opportunità per consolidare la propria reputazione anche in campo ambientale, oltre che per motivazioni di approvvigionamento della catena del valore. Investire sull’italianità e sui distretti di eccellenza non fa bene solo al made in Italy ma anche ai brand stessi. Poi c’è il fattore tecnologico. Le nuove tecnologie impattano sulla produzione. Alcuni processi, grazie all’AI, sono più convenienti e quindi possono essere ricollocati. Un esempio su tutti, la stampa tridimensionale, con cui si riesce a produrre a livelli bassi e a sostituire il lavoro manuale in Paesi dove si era delocalizzato.

La tecnologia abilita il funzionamento del sistema moda e quest’ultima trasforma il modo con cui vengono orientate le abitudini dei consumatori degli altri settori.

L’esempio di Supreme. Il marchio di New York, fondato da James Jabbia nel 1994, ha copiato la strategia commerciale in voga nei negozi di streetwear di Tokyo negli anni Ottanta. Per anni, ogni giovedì, Supreme ha reso disponibile una collezione limitata di prodotti. La tecnica del “drop” (dall’inglese “sganciare”) è possibile oggi grazie ai social e al passaparola virale. Domani sarà nel metaverso e nel Web3. Il fenomeno è universale. In sempre più settori si vende un prodotto con disponibilità limitata per un breve lasso di tempo: dalle scarpe da ginnastica agli orologi di lusso fino al largo consumo.