Innovazione

La lunga sfida green dell’industria Moda

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di Barbara Millucci 

Il fast fashion è responsabile del 50% delle emissioni totali di gas serra del settore. Se l’industria dell’abbigliamento fosse un Paese, si troverebbe nella top 5 delle nazioni con le maggiori emissioni al mondo.

Amy Myers Jaffe è direttore dell’“Energy, Climate Justice and Sustainability Lab” e docente alla New York University School of Professional Studies. Nella capitale, in un convegno a porte chiuse organizzato dall’Ambasciata Americana a Roma, ha illustrato le conseguenze della fashion industry nel mondo.

I 2/3 dei tessuti utilizzati dall’industria della moda contengono petrolio, come ad esempio le microplastiche. E l’uso di questi prodotti petrolchimici rappresenterà il 50% dell’aumento del consumo di petrolio previsto per il 2050.

Dati drammatici che dovrebbero far riflettere. Ma quanto ricicla il settore e come stanno cambiando le strategie di acquisto dei consumatori che si rivolgono sempre più a siti di e-commerce e ad app?

Solo l’1% dei materiali utilizzati dall’industria della moda a livello globale è riciclato – spiega la docente statunitense. – Secondo alcune stime, le microplastiche presenti negli oceani riconducibili a tessuti sintetici di capi riconducibili al fast fashion variano dal 9% al 30%. Inoltre, oltre un terzo degli acquisti online viene restituito e spesso buttato via dai venditori.

Il fenomeno dei resi, la pratica del bracketing «fa sì che più di un terzo degli acquisti online vengano resi o non utilizzati», aggiunge. A molte fashion victims è nota la pratica di acquistare un capo da Zara, indossarlo una sera e riportarlo il giorno dopo sostenendo che non vada bene per qualche strano motivo. Intanto la serata è filata liscia, senza aver speso un euro. Quel capo non si sa bene che ciclo di vita seguirà.

A questo si somma che circa il 25-40% dei tessuti che avanzano dai processi di produzione sono inutilizzati e il 60% degli indumenti scartati a livello globale finisce in discarica.

Qualcosa a livello governativo inizia però a muoversi. «I governi stanno sensibilizzando produttori e retailer sull’obbligo di informare i consumatori su come è stato creato e da cosa è composto un abito. La legge francese sul clima del 2021 esige che sui capi siano ben evidenziate etichette con informazioni precise per i consumatori. La Ue intende introdurre sui prodotti tessili sostenibili e circolari informazioni dettagliate sulla percentuale di contenuto riciclato. Il governo indiano incoraggia “stili di vita per l’ambiente” e un “consumo sostenibile”, mentre il governo cinese esorta i cittadini ad adottare comportamenti eco-sostenibili, almeno sui social media».

Onde evitare che diventino virali comportamenti irresponsabili e non rispettosi dell’ambiente. L’esperta ha anche illustrato una serie di linee guida da seguire per la salvezza del pianeta e nuovi approcci più etici per la moda. «È necessaria una riduzione del 50% delle emissioni attuali entro il 2030, per allinearsi agli obiettivi di Parigi e rimanere entro il limite dei 1,5 gradi Celsius, migliorare l’efficienza energetica delle operazioni (digitale, IOT, ecc.), aumentare l’uso di energia rinnovabile, decarbonizzare la produzione di materiali. Aumentare l’uso di carburanti a basse emissioni di carbonio nel trasporto di merci (Amazon, ecc.). Stabilire e definire meglio programmi di ritiro dei prodotti, con un maggiore uso di tessuti riciclati. Incentivare i servizi di noleggio, scambio e baratto vintage che tanto piacciono alla generazione Z e Alpha», conclude.