La Settimana Internazionale

La recessione tedesca colpisce tutti

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di Attilio Geroni

A molti italiani piace il sorpasso. Quando poi avviene a spese della Germania capita a volta di provare quel sentimento che proprio una parola tedesca, Schadenfreude, spiega bene: un certo piacere per le disgrazie altrui. Pur essendo un sentimento umanamente comprensibile quando, una volta tanto, l’economia italiana cresce più del previsto e la Germania entra in recessione tecnica, come è successo nel primo trimestre, ciò non aiuta a capire che se Berlino ha un problema questo problema coinvolge anche noi.

L’Italia ha la seconda più importante industria manifatturiera d’Europa dietro la Germania, che a sua volta è di gran lunga il suo primo partner economico-commerciale. Nel 2022 l’interscambio tra i due Paesi ha raggiunto nuovi massimi, 168,5 miliardi di euro, ed è stato l’anno della guerra e della crisi energetica. Un aumento di oltre il 18% sul 2021 che ha visto una crescita a doppia cifra sia delle esportazioni italiane (+15,8%) sia delle importazioni (+20%).

A titolo di confronto, il secondo più importante partner economico-commerciale dell’Italia, la Francia, è staccato nell’interscambio di ben 57 miliardi. Per la Germania, invece, l’Italia è al sesto posto nella stessa classifica. A livello regionale la Lombardia, da sola, pesa per un terzo sull’interscambio complessivo, seguita da Veneto ed Emilia Romagna. Specularmente, sono Baden Wuerttemberg e Baviera, i Laender più a sud, quelli maggiormente coinvolti negli scambi con l’Italia. Questo ci dice che in sostanza stiamo parlando di un grande polo manifatturiero transnazionale, uno dei più importanti d’Europa, che si snoda tra la Germania meridionale e la pianura padana.

Ecco perché i due trimestri consecutivi di contrazione dell’economia tedesca, alla fine dell’anno scorso e all’inizio di questo, sono in realtà una pessima notizia anche per il sistema Italia. Secondo l’ultimo rapporto della Camera di Commercio Italo-Germanica (AHK Italien) tutti i settori tradizionali dell’interscambio sono in crescita in termini di valore monetario: «La produzione industriale resta dunque il perno dei flussi tra i nostri due Paesi, con performance importanti del siderurgico, del chimico-farmaceutico, del settore macchinari, agroalimentare ed elettrotecnico-elettronico».

Lo stesso rapporto mette in evidenza un quadro più diversificato per quanto riguarda i volumi: «Se alcuni settori, quali macchinari e agroalimentare per l’export italiano e gomma ed elettrotecnica-elettronica per l’export tedesco, hanno visto un aumento anche a livello quantitativo, altri settori hanno registrato una contrazione dei volumi». È il caso, per entrambi i Paesi, del settore siderurgico, dove in Germania sono scesi i livelli di produzione e aumentati i prezzi, mentre sono rimasti stabili i volumi di tessile italiano e alimentare tedesco.

Questo il recente passato. Il futuro è più incerto perché anche la buona dinamica intrapresa dall’economia italiana potrebbe risentire di quella negativa, forse strutturale, intrapresa da quella tedesca. I dati sul primo trimestre 2023 evidenziano per la Germania un crollo dei consumi delle famiglie, dovuto al caro energia e alla conseguente impennata dell’inflazione. La domanda privata interna raramente è stata un elemento trainante della crescita tedesca negli ultimi vent’anni, ma la sua debolezza coincide con una crescente difficoltà sui mercati internazionali.

L’altra recente, e pessima, notizia che riguarda la Germania è relativa all’interscambio con la Cina, da anni ormai il suo primo partner commerciale. Nei primi tre mesi dell’anno l’interscambio con Pechino ha registrato una flessione del 10,5% rispetto allo stesso trimestre del 2022, attestandosi a 64,7 miliardi di euro, poco al di sopra del risultato conseguito con gli Stati Uniti, secondo partner. Soltanto l’export di veicoli tedeschi verso la Cina ha registrato tra gennaio e marzo una flessione del 24% su base annua.

L’industria italiana della componentistica auto è fortemente dipendente da quella tedesca e viceversa, come dimostrò il grido dall’allarme di Vw, Bmw e Daimler durante il picco della pandemia e le fabbriche ferme («senza l’industria italiana e spagnola non riusciamo a produrre», questo il senso). Di conseguenza, una quota non trascurabile dell’export tedesco di auto verso la Cina è Made in Italy.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno di riconversione complesso dell’apparato industriale tedesco, sia in termini tecnologici (doppia sfida di digitale e sostenibilità ambientale, auto elettrica inclusa) sia in termini geopolitici, soprattutto nella ridefinizione dei rapporti con la Cina. Di sicuro l’invasione della Russia in Ucraina, la crescente assertività di Pechino nei confronti della questione di Taiwan e altri importanti dossier multilaterali, ha messo fine al mondo in cui il modello tedesco ha prosperato: delegare sicurezza e difesa all’ombrello americano; acquisire da Mosca energia a buon mercato per aiutare la competitività della propria industria; radicarsi sul mercato cinese per sostenere la crescita complessiva.

Questo mondo è finito per sempre e le ripercussioni arriveranno anche da noi, ben al di là del confronto asettico, trimestrale, tra il +0,5% dell’Italia contro il -0,3% della (ex) locomotiva tedesca.

A ciò si aggiunge l’aggravante di una forte contrazione della spesa delle famiglie. La Germania del dopoguerra ha fatto di tutto per tenere alla larga l’inflazione, facendo della stabilità dei prezzi quasi un credo religioso. E ora che i prezzi salgono, come altrove e forse un po’ di più, la reazione si fa sentire nonostante Berlino abbia messo in campo risorse pubbliche senza eguali nell’eurozona per attutire i contraccolpi dello shock pandemico e di quello energetico.

Non c’è abitudine all’inflazione in Germania e il consumatore si ritrae nel momento in cui anche l’altro pilastro della crescita economica, l’export e l’internazionalizzazione delle sue imprese, non è più solido come un tempo.