La Settimana Internazionale

C’era una volta la Via della Seta, ora il rebus dell’asse Italia-Cina

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di Giorgio Marcata

«Penso che si debbano mantenere e migliorare rapporti di cooperazione commerciale ed economica con la Cina, ma che lo strumento della Via della Seta non abbia dato i risultati che erano attesi». L’unico stringato commento arrivato dalla premier, Giorgia Meloni, dopo l’addio dell’Italia al maxi-accordo con la Cina chiarisce bene le ragioni della scelta italiana ma non fuga i dubbi e gli interrogativi che imprese e operatori ora si pongono: che succederà alle piccole e medie imprese italiane e alle loro attività con la seconda economia mondiale? Davvero non avranno più nessuna copertura politica, come adombrano i pessimisti, o peggio saranno esposte a ritorsioni da parte del partner deluso, se non arrabbiato? Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, continua a rassicurare: «Adesso vediamo come rafforzare il rapporto con la Cina ma già stiamo lavorando tanto con loro, c’è un partenariato strategico. Pochi giorni fa è stata laggiù la ministra Bernini, prima c’era stata la mia visita. Non c’è nulla di negativo nei confronti di Pechino».

L’entrata e l’uscita dall’accordo

La disdetta non è stato un fulmine a ciel sereno. Già in campagna elettorale Meloni aveva definito l’adesione «un grande errore». E una volta a Palazzo Chigi aveva annunciato apertamente l’intenzione di sfilarsi dall’iniziativa siglata durante il primo governo guidato da Giuseppe Conte (cui partecipava anche la Lega), nel marzo 2019, durante la visita a Roma del presidente cinese Xi Jinping. Posizione poi ribadita nel faccia a faccia con il presidente Usa Joe Biden a fine luglio. La decisione ufficiale è arrivata la settimana scorsa, ma mantenendo un profilo bassissimo, certamente per evitare eccessive reazioni come quelle suscitate a livello internazionale all’atto della firma, con il gelo di Bruxelles e Washington: siamo stati l’unico membro del G-7 tra i 148 Paesi firmatari dell’intesa. L’intenzione era di uscire dal progetto in punta di piedi, semplicemente non rinnovando l’accordo (in scadenza a marzo 2024). Ma la Cina non l’avrebbe presa bene – stando alle ricostruzioni della stampa – e ha chiesto di ricevere una disdetta formale. La nota di addio è stata comunque accompagnata da una lettera in cui Roma ribadisce la volontà di rafforzare la «collaborazione bilaterale» a mutuo beneficio dei due Paesi.

Dunque, nessuna comunicazione ufficiale da Palazzo Chigi. Stesso atteggiamento dalla Cina, che vuole limitare i danni di immagine ed evitare un effetto a catena. Una exit strategy soft, a fari spenti, voluta anche per rispettare la leadership cinese e di Xi, visto che la decisione di lasciare la Belt and Road Initiative (il reale nome del maxipiano, ribattezzato romanticamente Via della Seta) è arrivata proprio nel suo decennale, che è stato celebrato a Pechino in pompa magna. E in quell’occasione il governo del premier Li Qiang – senza citare l’Italia – ha ammonito: «La Cina si oppone fermamente alla denigrazione e all’indebolimento della cooperazione sulla Bri».

Gli accordi rimasti sulla carta

Al di là delle inevitabili polemiche interne (per il leader del M5s, Giuseppe Conte, che firmò quell’intesa, la disdetta «è una decisione che si giustifica solo per ragioni ideologiche, fatta per compiacere altri che non sono le imprese italiane») i numeri attestano senza ombra di smentita che l’accordo non ha funzionato. La Via della Seta, oltre a migliorare i rapporti economici – per riequilibrare una bilancia commerciale sbilanciata a favore di Pechino – prevedeva 29 accordi, di cui 10 fra aziende private italiane e cinesi e 19 istituzionali. Valore complessivo 20 miliardi di euro: dai trasporti all’energia, dalla manifattura al credito, dal lusso al turismo. Di fatto è rimasto tutto lettera morta. E il vantaggio si è rivelato unilaterale, non certo a nostro favore: mentre le esportazioni italiane nel quinquennio sono cresciute di 4 miliardi di dollari (da 14,5 a 18,6 miliardi), quelle cinesi sono quasi raddoppiate da 35 a 66 miliardi.

Idem per gli investimenti diretti cinesi in Italia, che avevano già raggiunto un picco nel 2015 e che la firma avrebbe dovuto rilanciare: negli ultimi quattro anni non solo non sono saliti ma hanno cominciato a frenare, mentre Paesi come Francia e Germania, che non hanno aderito alla Bri, hanno continuato a mantenere stock di investimenti superiori. È anche vero che negli ultimi anni il clima nei confronti degli investimenti cinesi nella Ue si è notevolmente raffreddato: l’Italia, come altri partner, ha potenziato il meccanismo di screening degli investimenti esteri in entrata per proteggere settori strategici e di interesse nazionale.

Il messaggio filo-atlantico

Ovviamente sulla rinuncia alla Via della Seta hanno pesato, e non poco, anche ragioni di opportunità politica. Quattro anni fa per l’esecutivo M5s-Lega i potenziali benefici per il made in Italy avrebbero giustificato un avvicinamento alla Cina. Ma oggi, in una fase in cui Pechino si contrappone all’Occidente sui grandi temi internazionali, l’Italia ha voluto rimarcare la propria posizione euro-atlantica. Non è un caso che Washington abbia avuto un’interlocuzione costante con Roma su questo dossier, auspicando un ripensamento dell’alleato. In questa linea, va ricordato, l’Italia ha aderito a un progetto promosso dagli Usa per un nuovo corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, proprio in alternativa alla rete cinese.

Inevitabile a questo punto uscire dalla Bri. L’atteggiamento italiano si era rivelato più timido già con l’avvento del governo Conte II e ancor più con l’arrivo di Mario Draghi; la decisione di Giorgia Meloni chiude il cerchio. Roma si è così riallineata alla posizione delle altre potenze europee, secondo cui il progetto cinese è sconveniente a livello sia economico sia, soprattutto, politico.

Tra soft power e neocolonialismo

La Belt and Road Initiative è stata lanciata nel 2013 come un ampio programma che, tramite l’investimento di centinaia di miliardi di dollari in vari Paesi (mai fissata una cifra precisa, in verità), mira da un lato a rafforzare le infrastrutture dei singoli stati, tra trasporti, energia e comunicazione; e dall’altro a espandere chiaramente la sfera di influenza cinese. Focus di questa iniziativa: Asia, l’Africa, ma anche Europa. Una sorta di piano Marshall in salsa cinese viziato però alla radice dalla scarsa trasparenza: come hanno attestato diversi report, è difficile sapere cosa prevedano la maggior parte degli accordi di prestito con i Paesi partner, viste le clausole di riservatezza che vietano agli intestatari del prestito di rivelarne i termini. E con un ostacolo insormontabile per l’accesso alle informazioni da parte delle imprese europee che cercano di partecipare a gare d’appalto relative a progetti BRI, come ha denunciato un rapporto della Camera di Commercio dell’Ue in Cina.

Il piano è stato bersagliato da aspre critiche per il rischio “neo-coloniale” insito negli investimenti cinesi, che spesso si sostanziano in progetti di scarsa qualità o in enormi prestiti che i Paesi coinvolti faticano poi a restituire: così Pechino passa a raccogliere “i frutti” delle insolvenze, sotto forma di controllo diretto di pezzi di territorio dei Paesi finiti nella gabbia del debito. Tanto che gli osservatori internazionali hanno coniato il termine «diplomazia della trappola del debito». Dallo Sri Lanka al Pakistan o alla Malesia i casi sono noti. Ma anche in Europa. Ha fatto rumore nel 2016 l’acquisto del 51% del porto del Pireo ad Atene (partecipazione poi salita al 67%) da parte di Cosco, il colosso cinese delle spedizioni marittime.

Il precedente australiano

Già il programma non stava godendo di ottima salute, per ragioni finanziarie legate alla pandemia e alle recenti crisi internazionali; lo stesso Xi celebrando i dieci anni dell’iniziativa ne ha in sostanza rivisto l’impianto, abbandonando i grandi progetti in favore di interventi più mirati. E a causa della pubblicità negativa associata alla Bri negli ultimi cinque anni, fa notare il magazine Outlook Business, «i leader cinesi oggi preferiscono parlare di Global Development Initiative». Ora l’uscita dell’Italia, che potrebbe pesare anche sulle scelte di altri governi. Partenariato sì o no, è lecito prevedere un raffreddamento dell’ambiente in cui operano gli imprenditori italiani in Cina. Oltretutto, i rapporti tra Cina e altri Paesi europei già risentono dello scontro commerciale Cina-Usa.

La premier Meloni dovrà trovare il modo di proteggere i mercati italiani dalle rappresaglie economiche in Asia. Qualche velato avvertimento era arrivato prima dell’addio attraverso un editoriale pubblicato dal Global Times (giornale che rappresenta la linea più oltranzista del Partito comunista): «Se l’Italia decide di ritirarsi, ci sono tutte le ragioni per essere preoccupati del potenziale impatto negativo». Né è incoraggiante il precedente dell’Australia, primo Paese a lasciare la Via della Seta nel 2021: le relazioni politico-commerciali già deteriorate tra i due Paesi sono andate ulteriormente peggiorando, e in seguito alle critiche di Canberra sulla «aggressiva politica» estera cinese, Pechino ha imposto dazi sulle esportazioni australiane.

Meglio uscire in silenzio, avrà pensato il governo italiano, per ricucire lo strappo c’è tempo. Magari in occasione della visita del capo dello Stato Sergio Mattarella l’anno prossimo