La Settimana Internazionale

Tutte le trappole per Biden (pensando a Trump)

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di Attilio Geroni

La portata delle sfide internazionali di Joe Biden e dell’America intera è nel discorso pronunciato giovedì notte, 19 ottobre, dal presidente. Ucraina e Israele, la loro tenuta rispetto all’aggressione di Putin e alla sanguinosa provocazione di Hamas, rappresentano la ragion d’essere degli Stati Uniti:

La leadership americana è quella che tiene insieme il mondo e le alleanze americane sono quelle che rendono l’America sicura, i valori americani sono quelli che ci fanno essere un partner con le quali le nazioni vogliono cooperare. Tutto ciò sarà a rischio se abbandoniamo l’Ucraina e se voltiamo le spalle a Israele.

E dalle parole è passato ai fatti anticipando la richiesta al Congresso di nuovi finanziamenti per sostenere la difesa dell’Ucraina e di Israele, nonché altre risorse destinate alla sicurezza dei propri confini (Messico) e dell’Indo-Pacifico. Non ha dato cifre, ma secondo alcuni esperti si tratterebbe di un importo complessivo superiore ai 100 miliardi, dei quali 60 destinati all’Ucraina, 14 a Israele e il resto agli altri due capitoli.

Così ha risposto Biden ai fronti esterni che si moltiplicano (il Medio Oriente è tornato in maniera dirompente e devastante al centro dell’agenda americana) e potrebbero ulteriormente moltiplicarsi con un allargamento regionale del conflitto israelo-palestinese e un pericoloso confronto diretto con il grande sponsor del terrorismo di Hamas, l’Iran.

È un po’ l’America di sempre, quella che deve dimostrare al mondo, per citare una frase mutuata da una cattiveria del presidente Lyndon Johnson nei confronti dell’allora deputato Gerald Ford, di «saper camminare e masticare la gomma allo stesso tempo».

Il discorso di Biden alla nazione, pronunciato dallo Studio Ovale, è un discorso importante, su quello che gli Stati Uniti saranno e cercheranno di essere anche durante la campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2024 e che vedono il capo di Stato in carica in evidente difficoltà nei confronti dell’avversario di sempre, l’irriducibile e imprevedibile Donald Trump.

Biden continua a contrapporre l’impegno americano internazionale al desiderio di autoisolamento che il suo avversario ha sempre predicato e poi praticato quando è stato presidente.

Agli smemorati della politica internazionale, che giustamente fanno notare il clamoroso e drammatico flop della ritirata degli Stati Uniti e dell’Occidente dall’Afghanistan, bisognerà ricordare che quella decisione fu presa dall’Amministrazione Trump. Era una decisione dalla quale era impossibile tornare indietro anche se avrebbe potuto essere pianificata meglio ed eseguita con minor concitazione: sarebbe stata comunque mortificante, ma forse non annoverata come l’ennesimo fallimento delle politiche americane nei confronti del mondo islamico.

Quanto questa posizione, di rinnovato e rafforzato impegno sugli scacchieri internazionali – compreso quello di cui avrebbe fatto volentieri a meno, il Medio Oriente – gioverà al presidente americano sul piano interno e in vista del voto, resta una grande incognita.

I sondaggi non gli sono per il momento favorevoli e i temi che più stanno a cuore all’opinione pubblica americana sono legati alla criminalità, alla sicurezza interna, ai migranti che premono al confine con il Messico, all’economia e alla difesa dei diritti civili.

Secondo l’aggregatore di sondaggi Fivethirtyeight, il tasso di disapprovazione nei confronti di Biden resta elevato, al 54%, anche se in lieve flessione rispetto al picco raggiunto a metà settembre (56,5%) mentre il tasso di approvazione è al 40%.

In quasi tutti i sondaggi che lo mettono contro Trump per la poltrona presidenziale è in svantaggio o nella migliore delle ipotesi alla pari mentre nella maggior parte degli “swing States”, gli Stati altalenanti che di solito decidono le elezioni (Arizona, Georgia, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin) è indietro rispetto all’avversario.

Joe Biden ha ereditato dalla precedente Amministrazione repubblicana, ma a immagine e somiglianza dell’one-man-show Donald Trump, un disimpegno dal Medio Oriente, una guerra economica e commerciale con la Cina. E un Iran nuovamente bellicoso a causa della disdetta americana dell’accordo sul nucleare raggiunto ai tempi di Barack Obama e dell’uccisione, sempre durante il mandato di Trump, del capo delle guardie della rivoluzione, il generale Qassem Soleimani. Un Iran che ha completato il ciclo di allontanamento dalla distensione nei confronti dell’Occidente attraverso l’elezione a presidente del falco Ebrahim Raisi, uomo della suprema guida spirituale Ali Khamenei e mandante delle feroci e sanguinose repressioni contro le proteste dei giovani.

Il Medio Oriente è una trappola e l’allargamento del conflitto è legato al ruolo di Teheran, che da sempre sostiene e finanzia Hamas e soprattutto il suo vero braccio armato, fuori confine, la milizia libanese Hezbollah, che può contare su 100mila uomini ben addestrati e armati fino ai denti e dà tutta l’impressione di voler premere sul confine nord di Israele.

Non sarà facile per un presidente che viene irriso dai detrattori per la sua età e i suoi episodi di appannamento fisico e forse mentale coniugare la difesa dell’Ucraina con il contenimento della guerra israelo-palestinese. Il filo comune con queste due crisi l’ha tracciato proprio lui, Joe Biden, nel discorso dell’altra notte alla nazione: Putin e Hamas hanno una cosa in comune, ha detto: vogliono annientare due democrazie confinanti.

La parola di questo impegno dell’America gendarme del mondo passa ora a un Congresso rissoso che non riesce a eleggere il presidente della Camera dei deputati e, più tardi, a un corpo elettorale che rischia una divisione da guerra civile se l’avversario di Biden sarà Donald Trump. I numerosi processi che lo terranno lontano dalla campagna elettorale lo trasformeranno probabilmente in un martire gonfiando una mobilitazione nei suoi confronti che ormai nulla a più a che vedere con un partito – il Partito repubblicano – che non esiste più.