Scenari

I talenti di Silvio Berlusconi, uomo popolare non populista

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di Silvio Magnozzi

Lunedì mattina, 12 giugno, è morto Silvio Berlusconi. La data non è affatto banale ma di quelle destinate a restare perché il Cavaliere – nella sua parabola di vita – ha segnato la storia italiana non soltanto della politica, ma anche della televisione, dello sport e del costume. Non si tratta qui di fare un panegirico – ché è sempre difficile guardare con occhi non miopi a quella che è una storia presente. Contemporanea.

I suoi funerali in Italia sono stati di Stato e il Paese ha portato, per la dipartita di Berlusconi, il lutto nazionale. Eppure in vita al Cavaliere non era stato risparmiato (quasi) nulla. Non i processi. Non le polemiche. Non un periodo di affidamento ai servizi sociali. Non la decadenza da senatore. Non le critiche, da sinistra soprattutto (e da buona parte della stampa nostrana e estera), perché aveva troppo potere con i suoi media, e che questo rappresentava un pericolo per la democrazia.

Il fatto è che una figura grande, per talento e genialità, come quella di Berlusconi, era troppo ingombrante per gli avversari e, a volte, persino per gli alleati.

La sua discesa in campo nel 1994 introdusse di fatto un bipolarismo in Italia quando la sinistra e gli ex comunisti, dopo la caduta della Prima Repubblica, sembravano destinati alla vittoria. Gli ex comunisti persero le elezioni e Berlusconi le vinse e lì, in quel 1994, nacque l’agonismo fra centrodestra e centrosinistra (molta sinistra e poco centro). È stato un innovatore, Berlusconi, in politica certamente dove ha introdotto temi di cui in Italia – tranne forse la Lega di Umberto Bossi – nessuno fino ai primi anni Novanta aveva mai parlato. Temi come la necessità di ridurre il peso delle tasse nelle tasche degli italiani.

Già, la politica. A lei sono stati dedicati i decenni della seconda parte della vita del Cavaliere che nella prima metà si era dedicato ad altre sfide. Due su tutte: la televisione e il calcio.

Al centro di queste sue scommesse c’era sempre un’idea molto liberale e americana, della sfida come misura del talento perché ci si stanca – nella vita – di ciò che non è il prezzo di un lotta. È in questo struggle for life che nasce la televisione commerciale, innovazione di spettacolo ma anche rivoluzione culturale che mette fine all’idea della tv buona maestra per forza.

Un modello cui la Rai del monopolio era rimasta, sino all’avvento delle reti commerciali, legata nel raccontare e anche – aggiungiamo noi – nel fare informazione. C’è un saggio sapido sulle tv commerciali, scritto parecchi anni fa da Giancarlo Dotto e Sandro Piccinini, “Il mucchio selvaggio”, che in un passaggio di poche righe spiega la rivoluzione tv del Cavaliere. «I miracoli – scrivono gli autori – arrivano sempre dal cielo. In quel caso arrivò dal cielo di Milano Due, la città satellite così battezzata da Berlusconi, una grande antenna centralizzata Siemens. Dalla stessa ditta l’imprenditore milanese aveva acquistato un impianto di regia televisiva. (..). Berlusconi si inventa allora una tv condominiale a circuito interno, quale ulteriore, prestigioso optional da aggiungere al lago e ai cigni e da regalare ai facoltosi abitanti della nuova area – professionisti, yuppies, giovani famiglie – attratti da quella utopia realizzata, a dieci minuti dal cuore di Milano».

È il settembre del 1974. L’inizio di una rivoluzione. Con la stessa caparbietà e lucidità visionaria, anni dopo, negli Ottanta, Berlusconi rileverà la squadra di calcio del Milan portando – con l’ingrediente dell’agonismo e dell’intuizione – i rossoneri a tornare grandi e sul tetto d’Europa e del mondo. La televisione, il pallone, la politica.

Il triplete di Berlusconi (lasciando fuori da questo terzetto il suo periodo da imprenditore dell’edilizia), ha a che fare non solo con il talento di un uomo, ma anche con la capacità di far sognare gli italiani, siano essi spettatori, tifosi o elettori. Il popolo, in tutte le sue forme. Una vera sintonia la sua, in grado di capirne emozioni e desideri, a volte sbagliando – certo – ma spesso azzeccandoci.

Anche per questo chi ha definito o continua a definire Silvio Berlusconi come un populista sbaglia, e di grosso. Perché il Cavaliere era (e resterà sempre) popolare.