Sostenibilità

Ambientalismo accecato dal dogma dell’emergenza

Scritto il

di Alessandro Paciello

Chi avrebbe mai pensato che anche nel campo ambientalista potessero nascere delle narrazioni tossiche e quindi fortemente fuorvianti? Mi riferisco alla religione laica delle fonti rinnovabili in nome delle quali il paesaggio è stato declassato a ostacolo da superare in barba alla Carta Costituzionale. Qualche costituzionalista illuminato aveva previsto l’ulteriore indebolimento della tutela del paesaggio contenuta nell’art. 9 che sarebbe arrivato con l’inserimento, nello stesso articolo, proprio del sostantivo “Ambiente”.

Sembra un paradosso che dopo anni di attesa per arrivare ad avere l’Ambiente in Costituzione ci si debba trovare di fronte a un contestuale indebolimento della tutela del paesaggio proprio da parte di un pezzo di mondo ambientalista che per missione storica dovrebbe mettere sullo stesso piano tutela del paesaggio, della biodiversità e dell’ambiente. In nome di quella “bellezza”, spesso decantata e invocata, ma solo a parole.

Mentre il paesaggio e la biodiversità hanno una definizione precisa dettata da convenzioni e norme internazionali, l’ambiente risulta sempre più una definizione generica a rischio annacquamento e greenwashing.

Eppure, nonostante questo rischio di “annacquamento”, in nome del sostantivo generico “ambiente” si costruisce una narrazione dicotomica che non lascia spazio a una terzietà: la produzione da fonti rinnovabili serve a raggiungere gli obiettivi al 2030 e a renderci indipendenti dalle fonti fossili che prendiamo da Paesi autoritari, quindi nessuna esigenza di tutela del paesaggio può interrompere il processo.

A nulla valgono le richieste di identificare le famose aree non idonee o di puntare fortemente sul risparmio energetico ed efficientamento, come indicato dagli obiettivi per lo sviluppo sostenibile da qui al 2030.

Si fa così carta straccia di dati ufficiali come quelli dell’Ispra che dimostrano la disponibilità di decine di migliaia di ettari tra tetti, aree industriali e altro ancora, più che sufficienti a raggiungere i GW previsti.

Davanti a una mistificazione così sfacciata c’è da chiedersi perché i comitati che difendono il paesaggio dal posizionamento di impianti eolici o fotovoltaici industriali dovrebbero arrendersi? Perché, inoltre, si faccia di tutto per mettere in un angolo, riducendole all’impotenza, le sovrintendenze preposte alla tutela del paesaggio quando gli “impatti impattanti” si potrebbero evitare?

A giustificazione di tutto ciò vengono usate, più o meno strumentalmente, le continue emergenze energetiche a cui la guerra in Ucraina ha dato un’ulteriore e finale spinta inarrestabile.

Ogni voce qualificata che provi a ragionare secondo uno schema più complesso che faccia entrare in un serio piano energetico il risparmio, l’efficientamento, la tutela del paesaggio, la difesa dei territori a rischio idrogeologico e la biodiversità, viene purtroppo colpevolmente soffocata o, ancora peggio, repressa dal mainstream mediatico e associativo.

Infatti, impera la visione che l’emergenza non si possa più tollerare e quindi accettare pianificazioni serie e con una visione di ampio e democratico respiro. In effetti, andavano studiate e messe in atto prima, mentre ora, secondo questa drammatica visione (per altro, forse ineluttabile) non c’è più tempo. Le crisi energetica e climatica non possono attendere e si procede “un tanto al chilo”, di accetta e non di bisturi.

È incredibile come l’ambientalismo scientifico, tanto teorizzato per decenni da alcune associazioni ambientaliste, abbia lasciato campo libero a quello che potremmo definire un approccio tecnocratico, alla faccia dell’ecologia integrale o della conversione ecologica che ne dovrebbero conseguire. Forse perché è l’accezione stessa dell’aggettivo “scientifico” che viene travisata. E il punto di svolta c’è stato con l’avvento dell’era Covid: il rigido determinismo è diventato il mainstream mediatico e non più il confronto tra studiosi e ricercatori. Siamo così all’inizio della fine della scienza che ha rappresentato, come concetto intellettualmente onesto, l’evoluzione dell’essere umano dall’epoca della scoperta del fuoco.

La ricerca è stata soppiantata dal dogma. Il dogma viene dall’affarismo. L’affarismo deriva delle lotte di potere che governano il mondo. Così non solo si arresta il progresso scientifico, ma si mette in discussione la stessa evoluzione umana. E l’ambientalismo del “dogma emergenziale” travestito da “scientismo estremo” – l’ambientalismo degli “esperti” – ne è complice. Non a caso, qualcuno – sempre più –  parla giustamente di “transazione ecologica” più che di transizione.

E così stiamo assistendo a un passaggio tramite il quale l’unica transizione che vediamo profilarsi all’orizzonte è quella verso un mondo meno umano. Anche nell’approccio ambientalista abbiamo pertanto bisogno di un nuovo umanesimo, di una umanocrazia, più che di una democrazia, di una centralità riproposta dell’essere umano, dei suoi valori, delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, senza i quali l’aberrazione transumana, metaversica, digital brutalizzata in “deficienza artificiale” non potrà che avere il sopravvento. Con buona pace dei residui dell’ambientalismo di facciata!