Inchieste

Italia – Europa: tensioni in nome della flessibilità

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di Attilio Geroni

L’Italia ha ormai da decenni un rapporto controverso con le istituzioni europee. Passata la sbornia dell’euroscetticismo e di alcune tentazioni estreme come Italexit, resta  una storia di cooperazione difficile, alti e bassi, slanci integrazionisti e insofferenza nei confronti di alcune (molte) decisioni prese da Bruxelles o da Francoforte, nel caso della Bce.

Il rapporto impostato dal nuovo Governo di Giorgia Meloni si inserisce in questa storia delle relazioni internazionali italiane in ambito Ue: senza strappi clamorosi, almeno finora, ma nemmeno senza troppa armonia e condivisione sui mezzi per raggiungere obiettivi condivisi a parole da tutti, come crescita e stabilità o, ancora meglio, crescita nella stabilità.

E non potrebbe essere diversamente perché l’Italia continua ad avere un debito pubblico elevatissimo e perché la cornice istituzionale europea che dovrebbe tenere a freno debito e deficit all’interno di un’area monetaria – il Patto di Stabilità e Crescita, poi integrato dal Fiscal Compact – è sospesa dal 2020 e lo sarà almeno fino alla fine di quest’anno, per far fronte ai contraccolpi della crisi pandemica e della guerra in Ucraina.

Quello del Patto è il più lungo tormentone tra i tanti che hanno visto fronteggiarsi Roma e Bruxelles, Roma e i Paesi cosiddetti frugali, quelli del Nord Europa, ed è in fondo un tormentone bi-partisan per l’Italia. Contro la rigidità di questo Patto e a favore di una maggior flessibilità nell’applicazione delle regole si sono espressi negli anni esponenti di Governo del Pd (Matteo Renzi e Gianni Letta, ognuno dei quali rivendica di aver ottenuta la flessibilità necessaria da Bruxelles nel 2014) e di Forza Italia.

Lo stesso Romano Prodi quando era presidente della Commissione europea, nel 2002 lo definì “stupido” perché, appunto, rigido.

L’atteggiamento del governo Meloni, in vista del negoziato tra Stati europei sulla base delle proposte di novembre della Commissione (si veda l’articolo accanto) non sarà molto diverso. Sarà in linea con i dubbi già espressi sulla risposta europea agli aiuti pubblici dell’Amministrazione Biden all’industria con l’Inflation Reduction Act (IRA) e con quanto detto dalla presidente del Consiglio durante l’incontro a Berlino con il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Giorgia Meloni ha ripetuto nella capitale tedesca che il rischio di allentare i regolamenti europei per la concessione di aiuti nazionali alle imprese dei vari Stati è quello di una frammentazione del mercato unico poiché è chiaro che le nazioni con debito meno elevato avranno margini di manovra più ampi per rispondere con gli aiuti alla sfida competitiva lanciata da un’industria americana che nella transizione energetica sarà fortemente incentivata (369 miliardi di dollari). La presidente del Consiglio insiste sulla creazione di un fondo sovrano per gli investimenti destinati alla riconversione energetica, ma non è certo una partita, questa, che potrà chiudersi nei tempi brevi richiesti dalle decisioni americane di politica industriale.

Nel breve, il governo italiano suggerisce maggiore flessibilità nell’utilizzo delle risorse già stanziate nei Fondi di coesione, nel programma REPowerEU, e dalla rimodulazione del Pnrr. La partita è aperta e anche se la proposta della Commissione non indica in maniera specifica come eventualmente reperire nuovi fondi europei per rispondere alla sfida americana, si dichiara consapevole del pericolo che un allentamento delle norme sui sussidi alle imprese comporterebbe per il Mercato unico in termini di frammentazione e di relative distorsioni.

Sono questi i temi – accanto all’eterno dilemma sul Mes, il Fondo salva-stati europeo sempre guardato con sospetto da buona parte della politica italiana – sui quali si giocherà il rapporto tra Italia e Unione europea nei prossimi anni.

Sul Meccanismo europeo di stabilità, l’Italia non ha ratificato la riforma e sembra non ancora intenzionata a farlo in assenza di «misure correttive», che tuttavia non sono di facile realizzazione e che rischiano di inasprire, ad esempio, i rapporti con la Germania e ai quali, almeno in questa fase, il governo Meloni sta dedicando particolare attenzione.

Non trascurabile, inoltre, e molto attuale, è l’opposizione netta di Roma nei confronti della proposta di direttiva UE conosciuta con l’acronimo Epbd, che fissa le nuove regole per migliorare l’efficienza energetica degli immobili. Se passasse così com’è stata presentata – l’obiettivo della presidenza di turno svedese è ai approvarla entro giugno – per l’Italia significherebbe una ristrutturazione di due immobili su tre esistenti. Sia Fratelli d’Italia sia Forza Italia hanno gridato «a una patrimoniale» neanche tanto nascosta nelle nuove regole europee. La battaglia è assicurata anche perché in Italia chi tocca la case, a parte quando lo Stato si accolla per intero gli oneri di efficientamento energetico, come con il bonus 110%, politicamente rischia grosso.

Rotta di collisione, infine, anche sul fronte alimentare. In questo caso contro l’Irlanda, dopo che la Commissione Ue nei fatti le ha dato il via libera per apporre scritte di avvertimento sui danni per la salute alle etichette di vino, così come è stato fatto per altri alcolici e sigarette. Sarà, verosimilmente, l’inizio di una lunga serie di battaglie per la difesa dei prodotti italiani, Paese delle Dop e dei prodotti alimentari unici, portato avanti da un ministero che non è solo dell’Agricoltura, ma anche della Sovranità alimentare.

Il semestre italiano è iniziato il 1 luglio 2014 ed è finito il 31 dicembre dello stesso anno. Il risultato concreto che gli osservatori riconoscono all’Italia è rappresentato dalla dichiarazione della Commissione del 13 gennaio 2015, a semestre italiano appena concluso.

In tale dichiarazione la Commissione, come rivendica l’allora premier Renzi, fa espressamente riferimento al concetto di “flessibilità”. Nel dettaglio, si concede che non vengano usati ai fini del calcolo del debito e del deficit i contributi nazionali al fondo Feis per gli investimenti strategici, così come non contribuiranno all’apertura di procedure per deficit eccessivo o per squilibri macro-economici le spese di co-finanziamento nazionale dei programmi pagati dai fondi strutturali europei. Ancora, via dallo stesso calcolo le spese nazionali per le opere infrastrutturali previste dai programmi europei per le grandi reti (trasporti, telecomunicazioni ed energia) e il fondo che li finanzia (Cef).

10Italia tra i paesi più sanzionati

Storicamente l’Italia è sempre stata in cima alla classifica dei Paesi che più infrangono le direttive e norme Ue. Tutto questo ha un costo, perché alla fine del processo, la Corte di giustizia europea può imporre una sanzione economica a chi non rimedia agli errori fatti nei tempi prestabiliti.

Allo scorso ottobre, le procedure di infrazione a carico del nostro Paese erano 82, di cui 57 per violazione del diritto dell’ Unione e 25 per mancato recepimento di direttive. Difesa dell’ambiente, trasporti e concorrenza i settori più incriminati.