Inchieste

“Vogliamo crescere, la politica ci metta nelle condizioni di farlo”

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di Laura Siviero

Chi l’avrebbe detto che le nostre piccole e medie imprese avrebbero retto meglio delle loro omologhe di mezza Europa al Covid e alla guerra? I Rapporti usciti in questi giorni dai Centri Studi restituiscono l’orgoglio a un sistema che, da solo, rappresenta il 41% del fatturato totale delle aziende italiane. Silenti (forse troppo spesso), familiari (con tutti i limiti, ma anche molti pregi), consapevoli di dover crescere di più, investire di più, rischiare di più, formarsi, andare sui mercati esteri, ma fiere e appassionate, sono anche l’ago della bilancia tra le micro imprese, troppo micro e le grandi, troppo poche.  Ora la sfida dei costi energetici pesa ancora una volta sui conti e sui piani di sviluppo. Energivore o no, vogliono far sentire la loro voce, chiedono di essere accompagnate nell’ennesima transizione di questo millennio.

La manifattura alla testa delle Pmi. Su un totale di 4,2 milioni di imprese attive in Italia (Istat 2019), le medio-grandi sono solo 4.057 (0,1%), il resto del tessuto industriale è costituito dalle micro che valgono il 95%, ma producono solo il 23% del totale del fatturato, e dalle Pmi che, con il 5% delle aziende sul totale, generano il 41% del fatturato. È la manifattura italiana a guidare l’onda delle Pmi. Sul totale delle piccole e medie imprese (dati Unioncamere 2022), il 28,6%, è impegnato nel settore manifatturiero, il 15,3% nel commercio, il 13% nelle attività di servizi di alloggio e ristorazione, il 10% opera nell’ambito delle costruzioni, il 6% nei trasporti. E sono ubicate per il 47% al Nord Italia, il 21% al Centro, il 32% al Sud. Una schiera di piccole e medie imprese attive che assorbono il 44% dei dipendenti e generano un valore aggiunto al costo dei fattori di 312 miliardi, il 38% del totale.

Bene la produttività delle Pmi. Il Rapporto di Banca d’Italia del 7 luglio 2022, curato da Fabrizio Balassone, analizza come «il problema italiano stia nella fragilità del tessuto produttivo, in particolare il numero elevato delle microimprese che registrano livelli di produttività modesta anche rispetto ad analoghe realtà di altri Paesi, mentre è ridotto il numero delle medio-grandi che pure hanno un’efficienza equiparabile a quella di aziende delle maggiori economie europee. Uno squilibrio che viene compensato in Italia dalla produttività delle Pmi, che sono le più dinamiche».  Tra il 2010 e il 2019 la produttività delle Pmi italiane è cresciuta del 6,5%, mentre quella delle grandi imprese è diminuita circa del 5%. Inoltre le piccole e medie risultano avere tassi di redditività e investimento in linea con quelli delle grandi aziende in altri territori europei e di molto superiori a quelli delle micro imprese. «Nel confronto con i maggiori Paesi dell’area euro, la produttività delle aziende italiane è superiore a quella delle tedesche e spagnole di pari dimensione e solo lievemente inferiore a quella delle aziende francesi».

La competizione rende forti. Nel mercato estero, dove la pressione competitiva è più alta, le piccole e medie imprese risultano maggiormente performanti. Negli anni successivi alla crisi finanziaria globale, il peso delle esportazioni delle Pmi sul totale è aumentato di tre punti percentuali. Nel 2019 era pari al 48%, di molto superiore alle omologhe francesi e tedesche, ferme al 20% e anche delle spagnole al 33%. La competizione con gli altri Paesi inoltre le ha indotte a spostarsi verso settori ad alta innovazione. In un contesto italiano poco propenso agli investimenti in ricerca e sviluppo, le Pmi italiane hanno aumentato gli investimenti passando da meno di un quinto negli anni 2000 a circa un terzo nel 2019, una quota che resta ancora inferiore agli investimenti delle omologhe spagnole, ma che segna una risalita.  Una spinta a cui ha contribuito la costituzione del registro delle Pmi innovative.  I progressi maggiori sono stati portati avanti però più nella digitalizzazione dei processi interni che nell’ambito delle tecnologie avanzate.

I tre rischi principali. «Si è passati da una crisi all’altra, con in mezzo una crescita nel 2021 e ci sono tantissime risorse da utilizzare – ha dichiarato Vito Grassi, vicepresidente  di Confindustria e responsabile per le Rappresentanze regionali e le Politiche di coesione territoriale – fattori che insieme costituiscono un mix impensabile. Il 30% delle Pmi è esposta ad almeno un rischio tra quello ambientale, finanziario e la transizione ecologica». Il rapporto di Confindustria presentato il 15 settembre analizza due possibili scenari. Uno scenario “base”, dove permangono le condizioni attuali, in cui nonostante un rallentamento del tasso di crescita su base annua (+2,4% nel 2022) i livelli pre-Covid verranno recuperati. E uno scenario “worst”, la peggiore delle ipotesi possibili, che vede un netto arresto delle Pmi ad alto rischio. Secondo il Cerved, le imprese ad alto rischio sono 16mila, impiegano 478mila addetti e presentano un’esposizione verso il sistema creditizio di oltre 44 miliardi.

Le Pmi si attivano ma chiedono sostegno alla politica. Confimi Industria (la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata che rappresenta circa 45mila imprese per 600mila dipendenti con un fatturato aggregato di quasi 85 miliardi «propone, per l’industria manifatturiera – ha dichiarato il presidente Paolo Agnelli, intervenendo al decennale della Confederazione – che alla crescita della produttività aziendale, pari a un +3 o 4%, siano le aziende stesse a pagare ai propri dipendenti il saldo della differenza inflattiva sofferta nella perdita del potere di acquisto creatosi nel 2022. Una disponibilità – ha sottolineato Agnelli – che possiamo supportare proprio perché non soffriamo di nanismo. Le Pmi manifatturiere sono semplicemente piccole perché sono in attesa di crescere, e con la volontà di farlo. Ci auguriamo che il desiderio di farle crescere trovi riscontro anche nelle politiche governative di oggi e di domani».

Permangono, però, alcuni elementi di fragilità che rischiano di minare la crescita. Il primo, individuato da Unioncamere è la selezione della dirigenza. Spesso si inseriscono dinamiche familiari che poco hanno a che fare con le qualità manageriali. Il Rapporto di Unioncamere evidenzia come una raccolta di dati su 10mila imprese in oltre 20 Paesi, mostri che a pratiche manageriali migliori corrispondano maggiore produttività e performance migliori. Anche il livello di istruzione degli addetti pesa sullo sviluppo delle Pmi. Nel quinquennio pre-pandemia la crescita del numero di addetti è stata maggiore tra le piccole e medie imprese che occupavano una quota maggiore di laureati. Un altro gap rispetto allo sviluppo delle imprese di più grandi dimensioni è l’evoluzione verde. Il conseguimento degli obiettivi del Green Deal che prevede entro il 2030 la riduzione delle emissioni del 55% e entro il 2050 raggiungere il target tra l’80 e il 95%, deve passare attraverso la transizione ecologica delle imprese. L’aumento delle materie prime energetiche dovrebbe essere una spinta in questa direzione. Le risorse pari a 18 miliardi del pacchetto “Transizione 4.0” del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) prevedono incentivi fiscali per la trasformazione digitale delle aziende oltre a diverse misure per la transizione verde.

Il rischio gas. «L’incidenza media del costo dell’energia e del gas sui ricavi delle imprese è passata dal 4,2% nel 2021 a una quota dell’11,2% prevista per quest’anno, con punte del 12% per manifatturiero e commercio- spiega Fabrizio Cellino, vicepresidente di Confapi e Presidente Api Torino -. Il periodo è difficilissimo, occorrono coesione e politiche industriali ed energetiche decise e immediate perché se non ci saranno correttivi abbiamo davanti tre scenari: disoccupazione galoppante e chiusura delle imprese o chiusura temporanea delle aziende per superare l’inverno con massiccio ricorso alla cassa integrazione e conseguente diminuzione della capacità di spesa di milioni di cittadini. Il terzo scenario è legato al fatto che l’Italia ha un costo energetico superiore a quello degli altri Paesi, dunque non dimentichino i politici che verranno eletti, che certe scelte europee potrebbero non essere congeniali all’Italia».

Un plotone di imprese, queste Pmi, che hanno dimostrato di saper stare sul mercato, anche in questo complicato millennio, a non abbassare mai la guardia, a mutare continuamente per reggere, a dare sempre un po’ di più, ora chiedono alla politica sostegno e soluzioni, non elenchi di problemi. La sfida passa al prossimo governo.