La Settimana Politica

Il presidente “comunista” che ha attraversato un secolo

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Europeista, riformista: sono i due aggettivi che non hanno avuto rivali nelle descrizioni del Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano scomparso a 98 anni nella serata di venerdì 22 settembre e di cui martedì scorso, alla presenza delle alte cariche istituzionali, ex premier e leader stranieri (il presidente francese Macron e quello tedesco Stenmeier), si sono celebrati i funerali di Stato laici nell’emiciclo di Montecitorio, una delle tante “prime volte” che ne hanno segnato la storia politica e personale (senza precedenti è stato pure il saluto di Papa Francesco alla camera ardente allestita presso il Senato).

Nato a Napoli nel 1925, deputato ininterrottamente dal 1953 al 1996, europarlamentare e Senatore a vita, fu il primo dirigente del Pci ad ottenere il visto per entrare negli Usa, il primo esponente del comunismo italiano a diventare Presidente e il primo Presidente a venire eletto per un doppio mandato (dopo quello del 2006, il bis nel 2013), in questo oggi eguagliato da Sergio Mattarella che lo ha ricordato come un interprete fedele della Costituzione «votato alla causa dei lavoratori».

Molti i momenti salienti che hanno contribuito a forgiare la figura dell’ex presidente, a cominciare dal dietrofront sull’invasione sovietica dell’Ungheria che all’epoca lo vide convinto sostenitore dell’azione militare dell’Urss (trent’anni dopo, e dopo l’intervento russo in Afghanistan, convenne: «Fu una tragedia»).

Nel 2011, in piena crisi di spread e di fiducia internazionale nei confronti dell’allora governo Berlusconi, Napolitano convocò il Cavaliere chiedendogli di fare un passo indietro per “il bene del Paese”. Nacque il governo tecnico di Mario Monti, certo non il primo esecutivo partorito senza il passaggio per le urne ma quasi sicuramente quello che più di tutti gli altri instillò nel dibattito pubblico il dubbio che la politica nazionale e lo stesso concetto di rappresentanza potessero essere subordinati a dinamiche esterne e ad interessi economici sovranazionali.

Le ombre, dunque, seguite però quasi subito dall’evento per cui adesso il “comunista” dall’eleganza anglosassone (il suo inglese fluente e forbito fece scuola tra i cronisti parlamentari prima e quirinalizi poi) è da molti considerato l’ultimo statista del nuovo secolo: il durissimo discorso del 23 aprile 2013 in occasione dell’insediamento per il secondo mandato, accettato “obtorto collo” per l’impossibilità del parlamento – squassato in quegli anni da una profondissima crisi politica ed economica – di trovare un accordo sul nome di quello che sarebbe dovuto essere il suo successore. Napolitano non solo divenne (con 738 voti su 997 votanti) il primo presidente a bissare il mandato, ma divenne anche il più anziano ad essere eletto (87 anni, fino alle dimissioni conservò pure il primato di “più anziano capo di Stato europeo”).

Il presidente non nascose minimamente il suo disappunto per come i partiti politici, compresi quelli che non lo amavano, si fossero tutti presentati col cappello in mano tirandogli la giacca.

«Non mi sono sottratto a questa prova ma sapendo che quanto accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità» disse Napolitano, che attaccò senza sottigliezze linguistiche le «contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi» e puntò il dito contro il «populismo che con facilità (ma anche con molta leggerezza)» cavalcava l’insoddisfazione degli italiani e la protesta antipolitica, «alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni».

Il 23 aprile aprì le consultazioni di rito per la formazione del nuovo governo; il giorno successivo affidò l’incarico all’allora segretario Pd Enrico Letta di formare un proprio esecutivo, ritenuto il primo “governo di larghe intese” nella storia repubblicana.

Un’altra prima volta di Napolitano, la cui storia politica, come egli stesso scrisse, «non è rimasta eguale al punto di partenza, ma è passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni».