Nel Mondo delle Pmi

Made in Italy superato: la lezione di Mattarella sulla cultura italica

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di Gabriele Politi

Dottor Bassetti, da anni sostiene la teoria degli italici” e della italicità”. Cosa ha provato quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal Festival du Livre di Parigi e poi con una intervista al Corriere della Sera, ha citato questo concetto come base di un Rinascimento europeo al di là dei singoli Stati?

Piero Bassetti
Piero Bassetti

Ho provato un senso di rinnovata amicizia perché sul discorso degli “italici”, sul quale anni fa ho scritto un libro (“Svegliamoci Italici! Manifesto per un futuro glocal”, Marsilio 2015 – ndr), trovo sempre il presidente attivamente concorde. In molte occasioni, anche in sottile dialettica con organi dell’amministrazione italiana come la Farnesina, ha apertamente sostenuto la mia idea che accanto alla comunità degli italiani ci sia quella vastissima degli italici. Lui continua a richiamare l’attenzione sull’esistenza di questa comunità e sul fatto che dobbiamo tenerne in gran conto poiché si tratta di un’Italia ingrandita, nell’ordine di centinaia di milioni di persone.

Cosa lha colpita di più nellintervento del presidente?

L’organicità del discorso ma anche la coerenza e, se vuole, il coraggio di proporre il 25 aprile come un tema di identificazione culturale del nostro Paese, di QUELLA cultura e di QUELLA composizione della popolazione: ormai l’Italia vive non solo dei 60 milioni di persone (che peraltro diminuiscono sempre di più) dentro le frontiere dello Stivale, ma vive moltissimo, in Europa e nel mondo, dei milioni di persone che la nostra vicenda migratoria ha collocato ovunque. Il globo non è più diviso dalle frontiere nazionali ma è caratterizzato dalla mobilità: come noi vediamo arrivare gli stranieri, allo stesso modo loro ci vedono arrivare. E arrivano anche i nostri prodotti e l’Italian Way of Life, ovvero la capacità che gli italiani hanno di realizzare cose caratterizzate dal riferimento alla cultura italiana e al made in Italy.

Mattarella ha parlato di Rinascimento europeo tramite il concetto di Italicità anche in funzione del ripopolamento, innescando un acceso dibattito pubblico: Daniele Capezzone, su La Verità, ha scritto che leuro rinascimento di Mattarella sembra quello di sostituire gli italiani con gli italici. Cosa ne pensa?

È una posizione comprensibile di un intellettuale vecchia maniera, legato agli schemi nazionali, ma non coglie la modernità del discorso del presidente perché oggi il mondo non vive più nelle frontiere nazionali che concezioni politiche tipo quella risorgimentale, o fascista, difendevano come valide. Oggi ciò che è fuori da esse è importante quanto quello che è dentro e non possiamo non accorgerci che il made in Italy risulta limitato nelle sue capacità quantitative di fronte a mercati già aperti come Stati Uniti e India. A noi interessa coltivare questa capacità degli italiani di produrre all’italiana anche fuori dal confine dello Stivale. Il riferimento va a Roma e all’Impero romano, che usava persone (e imperatori) di tutti i ceppi culturali e di tutte le provenienze per essere l’impero che era. Una parte di quello che oggi produciamo come made in Italy è finanziariamente e operativamente condiviso con strutture fuori dai confini; il made in Italy non esaurisce tutta la capacità di sviluppo economico del nostro Paese e nemmeno delle sue aziende. Alla piccola e media impresa italiana di successo dobbiamo consentire un mercato non limitato a quello degli italiani di origine, che tra l’altro, come il presidente non ignora, vanno riducendosi di numero oltre che per capacità di acquisto.

Come giudica lapproccio del governo alle tematiche che riguardano direttamente il made in Italy e che, ad esempio, si esprimono con la proposta di istituire il liceo del made in Italy, oltre al ministero dellAgricoltura divenuto della sovranità alimentare e quello delle Imprese, ora anche del made in Italy?

La trovo un’ispirazione assolutamente provinciale. Prendiamo il discorso del liceo: noi dovremmo far sì che alla cultura produttiva italiana siano educate persone in tutto il mondo, pensiamo all’Africa, per dire. Il ministero: se si occupa solo di ciò che è fatto in Italia, non può occuparsi di ciò che il mercato considera made in Italy e che trascende di gran lunga quello che viene totalmente prodotto in Italia. C’è un problema di regole della cittadinanza: abbiamo un criterio risalente al Cinquecento, cioè cuius regio, eius religio, dove si hanno i piedi lì c’è la nazionalità. Oggi il mercato è basato sul movimento, sulla velocità, non è più legato al dove. Non è un caso che il successo della moda italiana sia purtroppo finanziariamente finito del tutto in mani francesi, perché loro dovevano difendere la propria moda. Dobbiamo stare molto attenti: se difendiamo il made in Italy come se fosse un’isola presto saremo espugnati e non solo finanziariamente. La difesa della mondialità dell’italicità è la difesa del suo futuro, della sua dimensione reale, perché non è il tricolore che la fa gradita. Io sostengo il made by Italics: tutto ciò che è fatto da quelli che si ispirano alla cultura e al saper fare italiano va difeso sul grande mercato del mondo.

Qui si collega il tema dellitalian sounding, laddove ci sono truffe commerciali che sfruttano il marchio universalmente riconosciuto di un prodotto italiano per fare qualcosa che di italiano non ha nulla, nemmeno lidea del saper fare allitaliana citata prima.

Questo secondo me è quello che ispira concretamente il nostro Presidente, perché chiunque ha fatto l’imprenditore come ho fatto anch’io sa che se ha un prodotto di qualità deve difenderlo dalle concorrenze. Una volta accadeva pure a Milano: c’era il negozio che vendeva il prodotto Bassetti e quello che ne vendeva l’imitazione. Ricordo un aneddoto che risale al mio primo viaggio in America grazie a una borsa di studio, negli anni ‘50: durante la traversata di ritorno, in una cabina a quattro posti, un espatriato che stava rientrando mi chiese come si diceva pizza in italiano. Per un italo-americano, la pizza nel 1950 era già un prodotto americano. Difendere la pizza vuol dire quindi non difendere solo la pizza consumabile a Napoli, ma difendere il genio creativo della pizza ovunque nel mondo e organizzarsi per consegnarla ovunque nel mondo. È proprio questo che le multinazionali hanno capito benissimo. Se noi non vogliamo sottoporre allo sfruttamento la nostra creatività dobbiamo saperla difendere nella sua espansione, che non può essere limitata soltanto ai 60 milioni – decrescenti – di italiani, sempre più vecchi e meno inseriti nella cultura del mondo.