Scenari

Subito un piano rivoluzionario per l’istruzione tecnica

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di Laura Siviero

Valerio Ricciardelli, classe 1956, una lunga esperienza come manager di Festo, in cui si è prevalentemente occupato di formazione nell’ambito industriale e per cinque anni vice president di global education, consulente di istituzioni tra cui l’Unesco nell’ambito delle learning cities, parla di technical education, racchiudendo in questo anglicismo tutta l’istruzione tecnica e la formazione e istruzione professionale. Sta per uscire il suo ultimo libro per rilanciare la Technical Education in Italia.

Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente ancora una volta. Vede più timori o opportunità per le aziende?

Il mondo del lavoro cambia in coerenza con le innovazioni tecnologiche. Non sto a preoccuparmi se c’è Industry 3.0 o 4.0 oppure oggi l’intelligenza artificiale. È nella normalità che l’evoluzione tecnologica porti i cambiamenti. C’è chi innova e ne ha convenienza o chi può aspettare. È una condizione con cui bisogna convivere. Bisogna mettersi a tavolino e ridisegnare le posizioni organizzative e l’architettura formativa. Inoltre, l’economia industriale mondiale si sta allineando, quindi i modelli valgono un po’ dappertutto. Se va in Nigeria, il profilo professionale di un manutentore della CocaCola è lo stesso del manutentore della CocaCola in provincia di Novara.

Assistiamo a un mismatch tra offerta e domanda di lavoro stimato, in termini di disvalore, a 38 miliardi di euro. Su chi va a pesare questa cifra impressionante?

È un numero che ricade tutto sulle aziende come costo in gran parte improduttivo. Quell’importo è prevalentemente la sommatoria dei costi per reclutare il personale, per inserirlo in azienda e per il tempo necessario affinché diventi completamente autonomo per esercitare il mestiere per cui è stato assunto. Il problema di fondo è che siamo un Paese che non programma nulla: se uno avesse un quadro di quanti vanno in pensione rispetto ai lavori nei prossimi cinque anni, si potrebbero fare dei ragionamenti. Ad esempio i diplomati di meccanica e meccatronica sono 8mila all’anno, non è nulla. In pensione ne andranno circa 30-40mila; quindi 8mila sono pochissimi e di questi il 50% non sono preparati. Come si fa con quelli che restano? A partire da quelli del settore della meccanica strumentale. Questa carenza è un grave pericolo per la sopravvivenza delle nostre imprese, che si ripercuoterà sull’economia complessiva del Paese e sul welfare.

Ecco, parliamo dei tecnici. Le aziende lamentano la carenza e lei ha bene in mente i numeri. Dove dobbiamo ricercare le cause di questo fenomeno?

La mancanza di personale ha due dimensioni: una quantitativa, mancano fisicamente le persone; e una qualitativa, non ci sono le competenze di cui si ha bisogno. La dimensione quantitativa, a sua volta, dipende da due fattori: il primo demografico, il secondo riguarda invece il numero degli iscritti all’istruzione tecnica che negli anni è passato dal 50% al 30%. Le professioni tecniche sono e saranno via via più importanti nel panorama mondiale, che si concentrerà sempre più sul manufacturing e il green manufacturing. La Germania occupa il primo posto e l’Italia il secondo, ma in questo binomio c’è un anello debole: i tedeschi hanno il miglior sistema di istruzione tecnica e professionale al mondo, mentre in Italia questo tipo di scuola è considerato di serie B. Ma è un errore, il miracolo economico si è sviluppato grazie ai tecnici.

L’alternanza scuola-lavoro aveva l’obiettivo di mutuare il sistema duale tedesco, cosa non ha funzionato?

Il sistema tedesco è completamente diverso. Intanto i due percorsi, liceale e tecnico-professionale hanno pari dignità e questo è reso possibile grazie al sistema delle Fachochschulen (istituti superiori di qualificazione professionale, ndr). Inoltre, le aziende tedesche hanno una dimensione maggiore di quelle italiane. E c’è una social responsability delle imprese dove le direttrici della crescita e dello sviluppo sono l’education e la conoscenza. Infine, il governo tedesco aveva stanziato per il modello duale, iniziato 60 anni fa, l’equivalente di 43 miliardi di euro, l’Italia per l’alternanza che nasce con il governo Renzi aveva dedicato 100 milioni.

Quindi anche le aziende italiane sono colpevoli di miopia?

Certo. Le nostre aziende, per la loro dimensione che è la piccola media impresa, non sono ancora mature per assumere un ruolo sociale che vada oltre quelli che sono gli obiettivi aziendali.

Questa riforma Valditara 4+2 porta qualche soluzione?

È una manutenzione dell’esistente. È vero che abbiamo bisogno delle competenze specifiche domani mattina, ma se devi costruire un sistema di educazione tecnica di eccellenza, equiparabile a quello di un manufacturing avanzato come la Germania e il Giappone, va ripensato completamente. Uno degli errori concettuali è che quando ci si pone la domanda di cosa hanno bisogno le aziende si va a chiedere alle aziende. Non si può più ragionare su una singola azienda ma si deve tenere in considerazione tutta la supply chain. Il livello di istruzione deve essere stabile, istituzionalizzato e di dignità universitaria.

Neanche gli ITS raggiungono l’obiettivo?

Non sono inseriti in un sistema istituzionale stabile. Oggi ci sono perché hanno i finanziamenti, domani non si sa. Secondo: non sono coordinati con l’istruzione secondaria. Abbiamo bisogno di 100mila tecnici di profilo alto, oggi gli Its diplomano 6.000 persone e di queste il 30% trova sbocco professionale non precario. Sono numeri irrisori, la popolazione dell’Its è l’1 % dei diplomati, in Germania i diplomatici tecnici sono il 40%, in Francia il 30%, in Spagna il 27%.

Dunque cosa propone?

Si deve pensare a un progetto rivoluzionario di turnaround dell’istruzione tecnica, che la porti ad essere la seconda eccellenza in Europa. Bisogna partire, con urgenza, dagli Stati generali dell’istruzione. Il governo deve porsi il problema dell’Education for Employability. Deve fare politiche di education finalizzate alla crescita economica, ma anche alla crescita occupazionale. Ad esempio se Industry 4.0 toglie posti di lavoro, bisogna crearne altri.