Scenari

Il caso Usa rilancia il dibattito: dobbiamo ripensare il Made in Italy

Scritto il

di Gabriele Politi

Dagli Stati Uniti è rimbalzata la notizia pubblicata dal Washington Post del colosso italiano Barilla che rischia una class action, teoricamente milionaria, dopo la denuncia di una coppia americana che ha acquistato un pacco di pasta pensando fosse prodotta in Italia e poi si è accorta che era realizzata nella sede statunitense con grano americano, indicazioni peraltro riportate correttamente in etichetta. Una giudice federale ha stabilito che ci fossero comunque le basi per proseguire con la causa.

Dr. Bassetti, è un esempio di come il concetto di Made in Italy” sia diventato anche una questione di aspettative?

Certamente. Direi anche di più: è un esempio di come il concetto di Made in Italy comporti delle conseguenze che non sono di facile gestione comune ma sono legate a definizioni e concetti che poi rischiano di finire in tribunale, perché un conto è “fatto in Italia”, un conto è “fatto da italiani” in America, un conto è il “fatto” da gente che è anche americana ma che di cultura è italiana.

Questo è il problema del mondo moderno per cui noi non siamo più cittadini per il posto in cui viviamo ma siamo cittadini per la cultura che ci portiamo dietro. Tutto questo la gente non lo capisce nelle premesse ma lo vive nei comportamenti. Se voglio una pasta italiana mi aspetto una pasta prodotta in Italia, diverso è se trovo una pasta prodotta in Iowa (come in questo caso) ma mi vengono a dire che è realizzata da una ditta italiana. Questo è un caso interessante perché non è facile prevedere chi lo vincerà.

Siamo dunque oltre il fenomeno del cosiddetto italian sounding. Da tempo, anche sul Settimanale, Lei afferma che il Fatto in Italia” deve trasformarsi in Fatto dagli Italiani”. Questa vicenda può essere il punto di svolta per aprire una discussione istituzionale sul tema?

Sì perché, vede, se chiedo una famosa crema spalmabile alla nocciola in un albergo di New York alla mattina, mi portano un prodotto – e l’azienda lo dichiara apertamente – fatto in Canada. Quando sto mangiando la famosa crema fatta in Canada sto mangiando qualcosa di “Made in Italy” o qualcosa di “Made in Canada”? Questo visto da un giurista, non da un consumatore al quale non interessa nulla sapere chi l’ha fatta, o dove è stata fatta, se la crema mantiene il sapore, il gusto e l’apprezzabilità di quella che magari ha assaggiato la prima volta nelle Langhe.

Questa problematica, che una volta non c’era, va esaminata non solo con l’occhio del Ministero degli esteri, per cui è italiano chi è nato in Italia ed è iscritto all’Aire, ma deve essere esaminata attraverso la cultura dell’economia e del mercato, dove affermare che una cosa è “fatta in Italia” non esige che sia fatta TUTTA in Italia e SOLO da persone con passaporto italiano. Un freno fatto come lo fanno a Bergamo, se è fatto altrove e funziona bene come quello fatto a Bergamo è a tutti gli effetti un freno all’italiana. Spiegarlo ai giuristi e ai dirigenti degli Esteri è un problema che dovremo affrontare insieme con quello della globalizzazione dei mercati.

Ammesso e non concesso che si introduca questo salto culturale, quali sarebbero i passaggi necessari per tutelare il bene immateriale del pensiero artigianale e imprenditoriale allitaliana”?

Richiederà tempo e sforzi non da poco perché questa è una domanda che nasce dal mondo dei mercati e delle cittadinanze dei prodotti che sta cambiando sotto i nostri occhi. Sono moltissime le definizioni non più accettabili che lo erano fino a trent’anni fa: il Made in Italy significava solo “fatto in Italia”, oggi si potrebbe dire “fatto come lo fanno gli italiani” oppure “fatto in America da italiani”. Il Diritto internazionale dei mercati non ha ancora ben definito queste tematiche e il caso rilanciato dal Washington Post è paradigmatico; se dovesse emergere dalla sentenza una definizione stretta di “Made in Italy”, be’, le nostre industrie che lavorano il grano duro per produrre pasta dovrebbero ridurre a un quinto la produzione. E’ un problema destinato a diventare sempre più grande e urgente.

Il governo ha introdotto nelle deleghe dei ministeri alcune novità linguistiche, tra cui spicca proprio il Made in Italy” del ministro Adolfo Urso. Cosa ne pensa?

Se questa scelta è stata fatta con la consapevolezza che si tratta di aprire un problema grosso e interessante allora è una scelta apprezzabile e commendevole, se è stata fatta nell’idea – fuorviante – di difendere il “Made in Italy” come l’avremmo difeso trenta o quarant’anni fa, allora sarebbe una scelta sbagliata. Non possiamo tornare a un concetto del “Made in Italy” come quello che un avvocato avrebbe spiegato subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, perché se così facessimo un’enorme porzione del nostro Made in Italy non potrebbe più circolare senza rischi di contestazioni. Se il Made in Italy, d’intesa con la Farnesina perché ci sono di mezzo i concetti di cittadinanza, sarà oggetto di riflessione aperta e creativa è un’ottima idea, se invece si pensa solo a tornare indietro e organizzare una difesa alla vecchia maniera allora è una stupidata.

Ritorna dunque la sua idea di italici e italicità”?

Certo. Per “Italici” intendo tutte quelle persone che sono portatrici di una cultura italica, che non è nemmeno la lingua ma quel sistema di valori che hanno fatto dell’italicità a sua volta un valore grande nel mondo. La Gioconda è a Parigi perché Leonardo era sì di Vinci, quindi italiano, ma aveva assorbito anche la cultura francese. L’italicità e gli italici – che stimo in circa 250 milioni – sono una realtà molto più grande e importante dei 58 milioni di italiani circoscritti dai confini dello stivale geografico.